Come tutti i beni pubblici, li si apprezza quando mancano. Quando i greci la mattina del 13 giugno si sono svegliati e, accendendo i ricevitori di casa, non hanno più trovato la loro televisione nazionale ma solo un quadratino nero sullo schermo con il numero del canale e dopo 10 secondi un avviso di controllare l'antenna causa mancanza di collegamento, sono esplosi prima lo sconcerto e poi la protesta. La sensazione di aver subito, nottetempo, il furto di un bene di famiglia ha fatto scoprire alla maggioranza dei cittadini il valore intimo di quel servizio pubblico nazionale e scatenata la protesta generale contro il governo che aveva deciso di chiudere la tv per tre mesi e di venderne alcuni pezzi.
Questa lezione vale anche per il nostro Paese, nel quale le discussioni e gli scontri sulla Rai assorbono spazi ed energie esorbitanti del dibattito pubblico. E in questa stagione tornano in primo piano coloro che vorrebbero cancellare la Rai, rimodellarla per asset vendibili a pezzi, svuotandola, più di quanto sia stato già fatto con gestioni sottomesse ai poteri di turno, di ruolo, funzione e influenza. Che sia necessaria una bella riforma, seria, onesta e intelligente è fuori dubbio. Che si debba cercare di deprezzare un patrimonio di grande valore come la Rai, unica azienda radiotelevisiva italiana radicata su tutto il territorio nazionale, è invece inaccettabile. Gioverebbe ai soliti noti e a quanti cercano con privatizzazioni a buon mercato. Ma questa prospettiva deve restare fuori dal criterio dell'utilità sociale che deve guidare il pensiero e l'opera di quanti debbano accudire ai beni comuni. Anche il governo greco ha dovuto prendere atto del valore del servizio pubblico radiotelevisivo per la vita comunitaria e per gli interessi nazionali. E' perciò tornato indietro sulla chiusura della Ert, sia pure avviando un piano di riorganizzazione. Tornando alla Rai e al caso italiano, non può sfuggire che in un Paese dove il polo privato berlusconiano gioca anche un ruolo primario di attore politico e dove i conflitti di interesse e la concentrazione pubblicitaria nel settore hanno livelli non raggiunti in qualsiasi altra parte del globo, l'idea di cancellare o svendere questa azienda non è praticabile, né conveniente, né socialmente utile. La Rai è la più grande azienda culturale del Paese, sul piano organizzativo per molti versi è diventata carrozzone. Va liberata da pesi impropri, dai giochi di potere della politica più deteriore, va impostata come un'azienda normale che deve corrispondere alla missione di servizio pubblico. E in una missione di questo tipo non basterà una guida solo ragionieristica. Dovrà certo, l'azienda, fare pulizia al suo interno, cancellare sprechi e sperperi. Ma dovrà soprattutto rimettere al centro la tematica degli investimenti e dei contenuti, perché solo tagliando conti senza bei programmi, senza puntare sulla qualità (vale anche per i giornali del resto) non si rimette in moto la macchina. Nel 2016 lo Stato dovrà decidere sulla concessione del servizio pubblico. In questa prospettiva dovrà essere riorganizzata la Rai, ripensandola come azienda di tutti gli italiani, che fa informazione, spettacolo e cultura guardando ed essendo presente in tutte le realtà del Paese, dedicandosi alle specificità, sapendo operare localmente e guardare globalmente. Quale privato potrebbe accettare oneri del servizio pubblico garantendo presenze qualificate e importanti in piccole regioni povere, non molto abitate, non "produttive" in termini di ricchezza pubblicitaria? Vale per la Sardegna come per tutto il Sud, ma anche per qualche regione che non se la passa più bene nello stivale. E allora gli spazi - di informazione, promozione e identificazione culturale - sarebbero non più liberi, né di sicuro pluralismo, né aperti (sia pure oggi in maniera insufficiente) alle voci e alle lingue minoritarie, come vorremmo diventasse di più il nostro sistema mediatico. C'è spazio per il privato, c'è necessità del servizio pubblico, riqualificato e aperto anche alla collaborazione del privato. Il legislatore sin qui non ha interpretato i tempi nuovi con un modello di governance all'altezza. Occorre uscire da una impostazione corporativa, anche attraverso una Fondazione che sovraintenda al rispetto della missione verificando l'attività di manager e di dirigenti. Così si può guardare bene ai conti e assumere una unità di misura rispetto al valore immateriale del pluralismo preservato e assicurato. In qualche caso si tratterebbe di investire utilmente, riordinando qualche rete e organizzando le reti bis regionali, come previsto per il Friuli Venezia Giulia e come si dovrebbe fare in Sardegna, regioni a forti caratterizzazioni specifica, autonomista e linguistica. La Rai è un bene prezioso da riconsiderare e ripensare fuori da centralismi gestionali politici. Qualità, attualità e credibilità sono riconquistabili. Una esigenza necessaria.
di FRANCO SIDDI da La Nuova Sardegna del 27 giugno 2013