Chi sono oggi i giornalisti italiani? Cosa fanno, come lavorano, che rapporti hanno con le imprese editoriali, con le istituzioni, con le fonti? Come sono organizzati, nel lavoro e nella società? Che peso hanno? Che scenari, che contratto, che lavoro e che professione possono immaginare per il proprio futuro?
Oggi oltre 100.000 iscritti all’Ordine vivono la loro “professione” in modi e mondi diversi. La maggioranza, oltre il 65%, è costituita da pubblicisti che non hanno ufficialmente alcuna attività lavorativa nel settore e da iscritti agli elenchi speciali, nessuno dei quali ha mai avuto una posizione contributiva all’Inpgi, nella gestione principale o nella gestione separata. Il 25% circa, svolge invece attività giornalistica a tempo pieno in genere regolarmente retribuita (più o meno bene), più o meno subordinata, con diversi gradi di copertura previdenziale, assistenziale e assicurativa. La parte restante è costituita da pensionati, disoccupati, sottooccupati e pubblicisti “classici”. Ci sono poi, in un numero non definibile, quei giornalisti di fatto, non iscritti o non ancora iscritti all’albo, che sfuggono alle statistiche della categoria. La crescita incontrollata che negli ultimi dieci anni ha portato al raddoppio degli iscritti all’albo rende difficile una determinazione precisa dei numeri, che crescono al ritmo di oltre 500 unità al mese, ma la sostanza nel periodo attuale è questa. In un settore in cui è ormai prevalente l’idea che tutti gli iscritti all’ordine abbiano e debbano avere pari dignità, in cui tutti si considerano e chiedono di essere considerati alla pari come professionisti dell’informazione, il primo grande divario è tra chi alla professione riesce a coniugare il lavoro e chi ha della professione solo il tesserino. I pochi che ammettono di usarlo solo per andare ai musei non lo dichiareranno mai in pubblico. Eppure il primo dato che colpisce guardando alle statistiche è proprio quello che ci dice come chi lavora sia ormai in minoranza negli elenchi dell’albo. L’evoluzione delle tecnologie della comunicazione ha determinato una crescente difficoltà nella definizione dell’attività giornalistica. La scomparsa di molti processi industriali, la sostituzione dell’ hardware col software, la tecnologia delle reti hanno prodotto un sistema in cui la sede di lavoro, la redazione, il desk, l’ufficio centrale, la tipografia, insomma tutti gli elementi di una filiera che appariva ben definita si sono trasferiti, o si possono trasferire, dal mondo reale al mondo virtuale. E se il lavoratore vive in un mondo virtuale, in cui basta uno scambio di flussi informatici a determinare il rapporto di lavoro e le sue qualità, la differenza tra chi sta nella professione lavorando e chi ci sta tenendo in tasca un tesserino diviene impalpabile. Questo facilita il flusso continuo, la marea montante di nuovi iscritti che raggiunto uno status non entrano mai nel mondo del lavoro. Per questo è oggi insensato parlare in termini classici, dare a parole come professionista, pubblicista e praticante i significati concreti che le hanno definite in passato. La scomparsa graduale degli elementi fisici, esterni, strutturali che caratterizzavano un tempo l’ attività giornalistica rende necessaria una sua (ri)definizione. Oggi questo è un mondo di attivi, anche in misura crescente precari, e inattivi, anche in minima parte pensionati. Per questa costruzione sia semantica che fattuale credo si debba partire dai due piani fondamentali, quello professionale e quello (gius)lavoristico. Considerando che anche quella che un tempo poteva essere definita la parte più tutelata e garantita della categoria vive oggi in una situazione di disagio e precarietà determinata dalla crisi del settore, che è una delle concause del mancato rinnovo contrattuale sia con Fieg che con Aeranti-Corallo. Sul piano professionale è ormai evidente a tutti come la sostanziale omogeneità tra coloro che svolgono l’ attività giornalistica, in relazione alle problematiche giuridiche, deontologiche, di rapporto con le fonti e la committenza, abbia di gran lunga distaccato una omogeneità tra gli iscritti all’ordine tout court. Tutti i giornalismi di cui abbiamo parlato e sostenuto i diritti negli ultimi lustri, tutte le differenze di inquadramento contrattuale che ci separano gli uni dagli altri per reddito, regole, diritti e gradi di subordinazione non ci rendono tanto diversi tra di noi quanto lo iato che separa chi svolge attività giornalistica da chi ha un tesserino in tasca e non ha mai scritto altro che quel che serviva per ottenerlo. Magari neanche i sessanta pezzi pagati in due anni, anche solo i propri dati anagrafici su un modulo. La facilità con cui gli Ordini regionali hanno mantenuto nei loro elenchi chi avrebbe dovuto essere depennato ha qualcosa di irresponsabile in sé. Senza andare a esaminare l’ eventuale eccessiva condiscendenza con cui sono stati gonfiati i numeri del pubblicismo e degli elenchi speciali. Questo fa sì che chi oggi svolge attività giornalistica viva una condizione di problematicità lavorativa, mentre nell’Ordine la maggioranza degli iscritti negli elenchi non ne sente gli effetti, non avendo interesse al lavoro. Il fascino che incomprensibilmente continua ad esercitare il “mestiere” di giornalista sui più giovani, testimoniato anche dall’incredibile massa di iscritti alle facoltà di scienze della comunicazione oltre che dai sondaggi e dalle selezioni delle scuole, e la immensa platea dei pubblicisti senza interesse a contrattare anche minimamente la prestazione occasionale rendono ormai privi di potere contrattuale tutti coloro che in altri tempi avrebbero potuto campare dignitosamente esercitando la libera professione come free lance. Negli ultimi tre decenni si sono susseguite ondate di stampo diverso che hanno profondamente modificato il panorama editoriale. Quella pubblicitaria in primo luogo, con una crescita costantemente a due cifre percentuali degli investimenti, che ha fatto crescere il bisogno di addetti alle pagine non pubblicitarie. Alle aziende, a molte aziende, interessava avere più informazione solo per riempire le pagine tra una pubblicità e un’altra pubblicità. Nessuna attenzione ai contenuti, prodotti editoriali estremamente poveri, supplementi a iosa. I due cicli che si sono sovrapposti tra loro hanno coperto lo spazio tra il boom del made in Italy degli anni ‘80 e il crollo del mercato dell’inizio del nuovo secolo, con strascichi che sono arrivati fino ai giorni nostri attraverso la settimanalizzazione dei principali quotidiani. Quella tecnologica in seconda battuta, che chiunque abbia vissuto trent’anni fa la meravigliosa sensazione di essere diverso dagli altri per il fatto di avere a casa una macchina per/da scrivere può chiaramente misurare oggi mettendo in pagina il proprio lavoro con uno smartphone. Quella culturale la abbiamo sotto gli occhi, tutte le volte che ci capita di rivedere certe prime pagine o riascoltare certe interviste, che oggi di fronte all’approssimazione e alla disperazione dei modelli proposti non solo dalle televisioni commerciali ci paiono sideralmente lontane e inarrivabili, non solo per il loro austero bianco e nero. Da questa evoluzione è uscita sconfitta la qualità. Hanno perso la professione, l’accuratezza, la verifica, l’inchiesta, l’approfondimento. Hanno vinto l’approssimazione, la corrività, la pornografia in senso lato e il sensazionalismo. La massiccia espulsione dal ciclo produttivo di figure professionali non giornalistiche ha inoltre ridotto tutti i passaggi di mediazione e controllo che, con il ruolo di trasmissione dei saperi alle nuove generazioni che la categoria ha irresponsabilmente abbandonato, consentivano un sistema virtuoso di esaltazione dei patrimoni di qualità e professionalità. Troppo facile sarebbe fare casistiche, esempi, aneddotica. Una ondata concomitante è invece responsabilità piena della categoria nel suo complesso. Non abbiamo saputo vedere cosa comportasse per il mercato del lavoro a lungo andare una impostazione legittima e rispettosa dei diritti che nel tempo abbiamo adottato nel nostro agire sia sindacale che ordinistico, confortata dagli Enti di previdenza e assistenza. L’ allargamento della base ha avuto come effetto collaterale il “todos caballeros”, la corsa alle tessere e ai contributi, l’espansione in territori di confine, la compiacenza, le clientele, il do ut des, il cammellaggio, le quote di iscrizione pagate da altri per poter votare alle consultazioni di categoria, gli interessi anche economici che si basano sul numero o sul nome accreditato dell’organismo, non importa quale, di categoria, i premi e i concorsi, i corsi e i convegni, le cene sociali, gli accrediti agli amici, le marchette di gruppo, il silenziatore ai provvedimenti disciplinari, il cane che non mangia il cane, le regole che per gli amici si interpretano sono mali che, sia pure insiti nella natura umana, hanno proliferato in una categoria che nelle sue istituzioni ha visto crescere e prosperare “rappresentanti di professione”. Questa nostra disgraziata natura ha influenzato anche e soprattutto l’andamento dei flussi di accesso al professionismo. Se per il pubblicismo un rimedio era a portata di mano, e anche semplice, per il professionismo non è stato così. Un pubblicista se ha i requisiti viene iscritto. Basterebbe dopo due anni verificare gli elenchi e nel 70% e oltre dei casi andrebbe depennato. Un professionista è un altra storia. Oggi il 17% viene dalle scuole riconosciute dagli Ordini regionali, il 45% da rapporti di lavoro subordinato quasi sempre a termine, a spizzichi e bocconi, il 35% con i praticantati d’ ufficio, i rimanenti da praticanti free lance. Vanno a Roma a fare l’esame in 1600 all’anno. L’ 80% passa l’esame. 1300 nuovi professionisti all’ anno mentre 250/300 giornalisti attivi vanno in pensione. Ci sono circa 3000 disoccupati. Metà dei pensionati non viene sostituita, o viene sostituita con contratti a termine. E ora arriva quello che potrebbe essere il passaggio occupazionale più duro nella storia del lavoro giornalistico dipendente del Paese: si prospetta un ricorso generalizzato da parte delle imprese editoriali allo stato di crisi, con prepensionamenti, incentivazioni all’ esodo e licenziamenti collettivi che secondo stime attendibili potrebbero riguardare circa il 10% degli attuali occupati. Che sono meno di 17000, ma più di 16000. Gli occupati, o per meglio dire gli attivi, sarebbero destinati a diminuire in un paio di anni di circa 1500 unità. Non dovrebbe stupire chi in questi anni ha letto i bilanci delle principali aziende editoriali italiane, e a maggior ragione chi considera quante di queste hanno avviato un nuovo ciclo di ricorsi alla legge 416 per il prepensionamento di personale poligrafico attribuito a riorganizzazioni produttive o a stati di crisi. In questo scenario le aziende editoriali hanno cominciato a muoversi secondo linee molto diversificate. Con lo slogan della modernità multimediale hanno messo in campo strategie generalmente miopi, che guardano al web come alla panacea senza proporre un modello informativo al passo coi tempi e trascurando, per attendismo o per sudditanza ad altri poteri, lo sviluppo integrato sui media concorrenti come radio e tv. Le gare per il digitale terrestre vengono disertate dalle principali imprese del settore, favorendo così una rendita oligopolistica di posizione, e lo sviluppo si riduce a iniziative che di innovativo hanno ben poco. Anche la telefonia, con il dvbh, sembra snobbata e il wi-max non viene preso in considerazione. Nessuna azienda punta sulle tecnologie pull, tutte le imprese editoriali si concentrano su gallery di ragazze seminude e sondaggi o forum banali. Qualcuno pensa vagamente a sviluppare brand-extensions di prodotti editoriali che nulla hanno di multimediale, torna prepotente l’idea fallace di portali settoriali. Una cosa tuttavia appare chiara anche in questa incertezza: che i modelli di produzione e distribuzione, e di conseguenza l’organizzazione del lavoro, sono destinate a diversificarsi marcatamente nei prossimi anni. Verranno adottate linee industriali ed editoriali nuove che si affiancheranno a quelle tradizionali, destinate comunque a sopravvivere a lungo in quelle aziende che riusciranno a rimanere sul mercato anche senza adattarsi al cambiamento. Questa trasformazione oggi in atto richiede un sistema di governo condiviso che determini le condizioni necessarie perché al suo interno la figura professionale del giornalista lavoratore torni ad essere determinante. Le condizioni sono ovviamente molto articolate, ma possono essere ricondotte ad un concetto generale da declinare in più modi, ed è il concetto di qualità. La qualità della alta professionalità, da raggiungere attraverso un percorso di accesso alla professione che sia veramente di alta formazione, universitario, sganciato dal ricatto dei datori di lavoro, altamente selettivo, in grado di portare ad un flusso di nuovi professionisti dello stesso ordine di grandezza di quello richiesto dal turn over generazionale. Per questo è necessaria, ma non sufficiente, una riforma della legge 69 del ’63; ma in attesa di questa alcuni correttivi sono già oggi possibili, a partire da una maggiore selezione all’esame che inverta l’attuale rapporto tra promossi e bocciati, da una politica più rigorosa e responsabile da parte degli ordini nel riconoscimento dei praticantati d’ufficio, da una programmazione più aderente alla realtà del numero di posti nelle scuole riconosciute dagli ordini. Senza dimenticare che la qualità e la capacità delle commissioni esaminatrici possono essere determinanti per questa selezione, e che formarle col criterio di regalare una vacanza romana a qualche amico non può essere più considerato accettabile. Solo commissari preparati e di alto profilo possono ridare dignità agli esami. L’istituzione di un elenco dei formatori potrebbe sganciare sia l’ insegnamento sia il sistema di selezione dei candidati dagli interessi di chi usa le maglie dell’accesso per costruirsi piccole clientele. Fenomeno questo ancor più evidente nell’iscrizione dei pubblicisti. La qualità che deriva dalla padronanza e dal controllo dei nuovi sistemi editoriali, siano essi dedicati ad una sola piattaforma distributiva o a più piattaforme, da raggiungere attraverso la formazione permanente e attraverso una convinta adozione da parte dell’intera categoria dell’idea che oggi siano destinati a convergere non solo i media ma anche i giornalismi. In questa prospettiva la battaglia di retroguardia di chi pretende che la multimedialità resti un terreno estraneo al nostro lavoro, sul quale avventurarsi cautamente solo su base volontaria e solo se retribuiti è quanto di più vicino alla pulsione suicida si possa trovare oggi sul mercato del lavoro. La multimedialità sarà il terreno naturale della professione, e rifiutarla significa accettare che altre figure, e non i giornalisti, trovino quei posti di lavoro, quelle professionalità, quei redditi, quei ruoli. Rifiutare i nuovi strumenti significa rinunciare al controllo dei mezzi di produzione, che in questa fase i lavoratori giornalisti hanno l’occasione invece di riacciuffare con decisione. Affermando con forza la necessità di un lavoro giornalistico serio, approfondito, verificato e affidabile per poter costruire mezzi di informazione che nell’era del cotto e mangiato, del fastfood informativo, del pulviscolo di bit siano in grado di dare piena attuazione al diritto del cittadino a una informazione completa, affidabile, rigorosa. Sapendo che questo significa anche e soprattutto ottenere il tempo, i mezzi, gli organici e le strutture di supporto per farlo sul serio. Altrimenti non ne vale la pena. La qualità di condizioni di lavoro e di contrattualizzazione chiare, che consentano uno sviluppo delle carriere e una stabilità del potere d’acquisto dei giornalisti tali da permettere e anzi incoraggiare l’indipendenza e l’autorevolezza dell’informazione. Sapendo che oggi, e a maggior ragione domani, non è più sostenibile un modello contrattuale che per troppo tempo ha dirottato le risorse economiche su una parte della categoria che ha vissuto di rendite di posizione. Gli automatismi di reddito e carriera non possono più vivere di vita autonoma, creando una giostra che continua a premiare in maniera esponenziale chi è riuscito a salirci e lasciando ai margini e con le pezze al culo chi per mancanza di padrini non viene considerato una assunzione inevitabile. Dobbiamo perciò intraprendere una strada nuova, diversa dal passato, quella che potrebbe portarci a coniugare (nuovamente) professione e lavoro, conquistando nuovi ruoli e nuove professionalità. E’ in fondo l’unico modo serio di contrastare la contrazione occupazionale, ampliare la vera base impositiva per gli enti di categoria, recuperare quel ruolo di giornalisti che oggi sempre più spesso riteniamo di aver perso. Milano, 28/10/2008